📓️ Sul passaggio dai diari ai blog ai social, una riflessione
Da OctoSpacc
Quest’anno, i miei più assidui seguaci lo sanno, godo del privilegio di non dover affrontare l’esame di maturità: ho già dato abbastanza l’anno scorso, mentre ora mi trovo nel ben peggiore vortice dell’università. Ma, per coloro che invece non degnano i miei profili online delle dovute attenzioni: fa niente, lo avete scoperto ora.
Non andando più a scuola, è inevitabile che sia passato per me un intero anno solare senza scrivere mai il classico tema e, per quanto non mi manchi assolutamente il tornare a casa con la spalla rotta e la mano monca — risultato dello scrivere centinaia di parole a mano su carta per poi produrne addirittura una copia in bella — devo ammettere che il non dover scrivere è abbastanza triste.
Ovviamente, visto che scrivere mi piace, non ho mai smesso di farlo per conto mio, anzi, ho aumentato abbastanza la frequenza. Ora… è vero che questo blog qui da un annetto non vive, ma a malapena sopravvive, ma le mie previsioni di ormai sei mesi fa riguardo il mio nuovo microblog (sull’articolo scritto come resocontoctt delle pubblicazioni del 2023) si sono dimostrate abbastanza azzeccate, e almeno qualche centinaio di parole al giorno lì sopra riesco sempre a metterlo. (Vorrei fare di più, ma il tempo è tiranno.)
“La traccia sui blog”
Avrete già notato che questo non è un tema, perché temo che su un elaborato scolastico mi costerebbe caro iniziare con delle divagazioni così potenti, quindi spero che ora non scapperete se dirò che qui, oggi, voglio approfittarne per elaborare proprio una delle tracce proposte nella prova di italiano di quest’anno.
Un po’ per il meme, un po’ per sfizio, ma sotto sotto anche un po’ per nostalgia, infatti, ho deciso di dare giusto un’occhiata alle prove di quest’anno… con tre giorni di ritardo, certo, perché il tempo è un despota, ma il tempo è relativo quando non si ha un limite di 6 ore per fare qualcosa!
Tralasciando la prova di matematica che, quella si, l’ho aperta davvero solo per il meme (non capisco un’accidente!), era inevitabile che almeno la prova di italiano avesse qualche buona proposta, e tra tutte oggi ne scelgo una che, dato questo contesto, è abbastanza meta: la C2, della tipologia di “riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità”… Il nome è una palla, si, quindi la smetterei subito di citare il testo del Miur e andrei al dunque; prima, però, la traccia:1
(Clicca per espandere) Proposta C2: Testo tratto da: Maurizio Caminito, Profili, selfie e blog, in LiBeR 104, (Ottobre/Dicembre 2014), pp.39-40.
Quando cambia il modo di leggere e di scrivere, cambiano anche le forme più consolidate per trasmettere agli altri (o a se stessi) le proprie idee e i propri pensieri. E non c’è forse nessuna forma letteraria (o para-letteraria) che, nell’epoca della cosiddetta rivoluzione digitale, abbia subìto una mutazione pari a quella del diario. Il diario segreto, inteso come un quaderno o un taccuino in cui si annotano pensieri, riflessioni, sogni, speranze, rigorosamente legati alla fruizione o (ri)lettura personale, non esiste più. Non solo perché ha mutato forma, lasciando sul terreno le sembianze di scrigno del tesoro variamente difeso dalla curiosità altrui, ma perché ha subìto un vero e proprio ribaltamento di senso.
Nel suo diario Anna Frank raccontava la sua vita a un’amica fittizia cui aveva dato il nome di Kitty. A lei scrive tra l’altro: “Ho molta paura che tutti coloro che mi conoscono come sono sempre, debbano scoprire che ho anche un altro lato, un lato più bello e migliore. Ho paura che mi beffino, che mi trovino ridicola e sentimentale, che non mi prendano sul serio. Sono abituata a non essere presa sul serio, ma soltanto l’Anna ‘leggera’ v’è abituata e lo può sopportare, l’Anna ‘più grave’ è troppo debole e non ci resisterebbe.”
Chi oggi scrive più in solitudine, vergando parole sui fogli di un quaderno di cui solo lui (o lei) ha la chiave?
Chi cerca, attraverso il diario, la scoperta di un “silenzio interiore”, “la parte più profonda di sé”, che costituirà, per chi lo scrive, il fondamento dell’incontro con gli altri?
I primi elementi a scomparire sono stati la dimensione temporale e il carattere processuale della scrittura del diario, non tanto rispetto alla vita quotidiana, quanto nei confronti di un formarsi graduale della personalità.
Il diario dell’era digitale è una rappresentazione di sé rivolta immediatamente agli altri. Nasce come costruzione artificiale, cosciente, anzi alla ricerca quasi spasmodica, del giudizio (e dell’approvazione) degli altri. Rischiando di perdere così uno degli elementi essenziali del diario come lo abbiamo conosciuto finora: la ricerca di sé attraverso il racconto della propria esperienza interiore. Che viene sostituita dall’affermazione di sé attraverso la narrazione mitica (o nelle intenzioni, mitopoietica) di ciò che si vorrebbe essere.
Nel brano l’autore riflette sul mutamento che ha subìto la scrittura diaristica a causa dell’affermazione dei blog e dei social: esponi il tuo punto di vista sull’argomento e confrontati in maniera critica con le tesi espresse nel testo. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
Che ruolo hanno i blog?
A costo di essere (magari fosse solo sembrare…) un disco rotto, lo ripeto: questo non è un tema, non fuggite, vi scongiuro! Per quanto in ogni caso mi piace mantenere genuina l’esperienza di questa scrittura, cioè iniziare e finire senza andare a sbirciare come gli altri sulla rete hanno svolto la mia stessa traccia, non posso non affrontare l’argomento con i miei modi di sempre, come per gli altri articoli del mio blog, raccontando anche la mia personale storia, e… capite, a questo punto, perché dico che “è meta”?
In quanto ragazza bizzarra su Internet che deve sempre farsi riconoscere, non potevo esimermi dal parlare di blogging proprio sul mio blog, prendendo come spunto del testo che proviene da un libro; qualcosa che fa parte, per così dire, della vecchia frontiera della condivisione dei propri pensieri con il grande pubblico… qualcosa che però non è stato per nulla soppiantato dalle nuove tecnologie. È tuttavia inevitabile che, nel nostro mondo, fatto di esseri mortali con del tempo limitato a loro disposizione (quel dittatore ritorna sempre in ballo…), ogni cosa nuova che arriva deve sempre (almeno in parte) sostituire qualcosa di vecchio, altrimenti non se ne parlerebbe nemmeno, perché nessuno ne verrebbe mai nemmeno al corrente… quindi, dove sta l’inghippo?
Diario contro novità
I blog, appunto, non hanno tolto di mezzo i libri, che ancora vengono scritti e letti a tutta forza (almeno, relativamente), ma al loro arrivo hanno curiosamente preso il posto di qualcosa di opposto: il diario, una forma di scrittura per antonomasia intima, in genere mai indirizzata alla fruizione pubblica, e certamente non aperta al commento o alla condivisione di seconda mano. Per sviluppare il suo pensiero, l’autore del testo parte proprio da questo assunto, che oggettivamente è vero: moltissime persone che hanno vissuto prima di Internet, sia di mia conoscenza che lontane di secoli e secoli, usavano tenere il classico diario personale in un modo o nell’altro… mentre oggi, nonostante l’analfabetismo (non funzionale) sia ai minimi storici praticamente in tutto il mondo, qualcosa con esattamente quelle caratteristiche non è per nulla comune. Cosa è successo? Magicamente la gente non ha più pensieri personali da elaborare e conservare? Ovviamente no: sono cambiati semplicemente i modi e, questo è il punto della discussione, gli obiettivi per cui lo si fa.
Va precisato non per fare le pulci al testo, ma semplicemente per stabilire un contesto più accurato, che si legge lontano un miglio che questo è stato scritto nel 2014: mentre parla giustamente anche di social, da quel poco che sappiamo solo grazie alla traccia si può dire che si concentra principalmente sui blog, ma i blog a distanza di dieci anni sono belli che morti. Dieci anni sono praticamente un’epoca storica nella società dell’informazione, tant’è che i blog in senso proprio in realtà non hanno nemmeno avuto il tempo di uccidere il diario, prima di venir uccisi a loro volta dai social (tra cui alcuni che sono cosiddetti microblog, ma non solo). I siti web personali dedicati alla scrittura pubblica delle proprie idee sono portati avanti solo da due categorie di persone: gli artisti digitali e/o i nerd della tecnologia (eccomi), e coloro per cui la scrittura è prima di tutto un lavoro, (scrittori, giornalisti, ricercatori, ecc…), che nel tempo libero si dedicano anche ad una forma più informale ma comunque di sostanza.
Ormai, purtroppo, le persone nella norma si accontentano di usare banalmente le piattaforme social, e di fare del blogging sempre più micro, perché la moda che c’era nei primi anni del nuovo millennio è stata subito eclissata; in un certo senso, il livello dei blog medi si è alzato di molto, essendo questi ora usati intenzionalmente per affrontare problematiche criticamente e far scaturire discussioni “impegnate”, e sono sempre meno raccolte di memorie giornaliere. Questo dettaglio, lo sa bene chi è in una posizione simile alla mia, non è piccolo quanto sembra, ed è giusto tenerlo in mente per dopo.
Diario diventato novità
Indipendentemente da quali siano le tecnologie preferite dai ggiovani oggi, il punto di quelle due pagine rimane: il digitale ha stravolto il concetto di diario, che oggi esiste prima di tutto come mezzo per esporsi, e non per raccogliersi. L’argomento è particolarmente interessante, poiché la situazione odierna non è solo una conseguenza dell’evoluzione tecnologica, bensì dell’evoluzione della società in relazione a quella della tecnologia. Per la maggior parte delle persone, me compresa, è condivisibile l’idea che scrivere i propri pensieri in digitale sia più comodo, flessibile, intrigante e sicuro, rispetto alla romantica ma troppo vecchia accoppiata di carta e penna; tuttavia, l’usare un supporto virtuale non significa automaticamente rinunciare al segreto o all’introspezione.
Chiunque può benissimo comporre file sul proprio dispositivo e lasciarli lì solo per sé, magari addirittura proteggendoli con la cifratura, una sicurezza indubbiamente più sicura di un lucchetto scricchiolante che usa una chiave prodotta in serie. Anzi, è tecnicamente anche più facile tenersi le cose per sé, rispetto al tenere uno dei moderni diari online, che richiede di creare un profilo, configurare le impostazioni e, in casi limite, persino fare attenzione a cosa si scrive, per non finire banditi dal servizio. Ma quindi, come mai non si scrive più in privato, nonostante ciò sia anche più facile che in passato (pure se, certamente, allo stesso tempo anche scrivere in pubblico è molto più facile del passato)?
La mia storia complicata
Ho cercato di trovare una risposta a questa domanda qualche volta, ormai da anni, almeno da quando ho smesso di usare le varie piattaforme digitali con superficialità. In realtà io, infatti, è dalla tarda infanzia che in un modo o nell’altro condivido ciò che voglio dire grazie ad Internet, avendo iniziato prima con YouTube (facendo gameplay e qualche tutorial informatico), per poi appassionarmi molto lentamente alla creazione di siti web nella prima adolescenza, e usando i gruppi di chat sia in tutto questo tempo che un po’ più avanti. Non mi è però mai successo di voler condividere, sistematicamente e con un pubblico più etereo, cose più private o non strettamente legate alle mie attività digitali, fin quando non ho iniziato ad usare Instagram per brevi periodi, un po’ di tempo dopo l’esplosione delle storie.
Si tratta ad ogni modo di cose volatili (come d’altronde la natura del formato obbligava), che se non avessi potuto pubblicare lì sarebbero probabilmente finite dimenticate e basta, in qualche chat perduta o nel buco nero della mia galleria, perché non avevo mai percepito l’attrattiva del tenere un registro personale all’interno del quale scrivere le mie cosine. Molto probabilmente, e questo è forse anche per via della mia immaturità emozionale dell’epoca, il formato mi incuteva anche un po’ di timore, non riuscendo proprio a immaginarmi cosa avrei dovuto scrivere a lungo termine, e soprattutto perché mai; sui social almeno potevo conoscere nuove persone con cui condividere opinioni, passioni e attimi di leggerezza, dando loro la possibilità di conoscere piccoli frammenti della mia vita come io potevo conoscere i loro. Più tardi, comunque, Instagram stava iniziando a seccare, e ho smesso di usarlo definitivamente.
Da Telegram in poi
A questo punto, per un bel periodo non ho davvero condiviso più nulla di particolare su di me in pubblico, ma parlavo giusto in qualche chat, e normalmente non di cose direttamente personali. A volte condividevo meme, e andavo avanti con quelli, avendo creato dopo alcuni mesi anche un piccolissimo canale Telegram dove ne ripubblicavo diversi (di molto, molto cringe e per nulla kek). Piccolo dettaglio: Telegram è un servizio di messaggistica, ma ha sempre svolto per molti anche il ruolo di piattaforma social alternativa, al punto che persino chi ci sta dietro ci ha marciato molto negli anni. Lì sopra ogni tanto, in modo talmente spontaneo che quasi me n’ero dimenticata ora, mi capitava di inviare messaggi ironici di mia fattura, o di rispondere quelli dell’altro amministratore. Alcuni facevano anche riferimento a cose che facevo o che mi capitavano, ma comunque l’attenzione non era mai propriamente su di me.
A dire il vero, piano piano le pubblicazioni di mia creazione su quel canale sono lentamente aumentate nei mesi, fino a che, quasi un po’ a caso, con un pretesto in verità un po’ buffo, non mi venne l’idea di creare uno secondo canale dove pubblicare solo spontaneamente, senza i repost incontrollati di meme. Questo canale (che in realtà era nato anche con due nuovi admin, ma dove ero comunque io a parlare di più), è forse nei mesi diventato effettivamente una specie di diario aperto al pubblico, con io che pubblicavo sempre meno a caso, e su argomenti lentamente sempre meno virtuali, ma senza che io nemmeno me ne accorgessi, perché non bastavano due mani per contare tutti gli strati di ironia. In quest’ultimo caso sto parlando semplicemente di OctoVoLTE, che in ormai 5 anni si è evoluto insieme a me e al mio modo di scrivere, arrivando ancora oggi ad esistere come mio microblog attivissimo, come ho accennato all’inizio.
L’era “greve zì”
In parte, è proprio ora mentre scrivo che mi accorgo di come, in quel posto pubblico, cercassi via via nel tempo una sorta di intimità segreta, ma che non fosse un vero e proprio isolamento. Era nato per fare battute su di me o su miei momenti personali poco profondi, ma nei mesi e negli anni è sempre più diventato un posto dove scrivere di cose più private e che sentivo di non poter davvero dire da nessun’altra parte. Nel frattempo, stavo progressivamente sempre più male mentalmente, per motivi che all’epoca erano sia per me che per gli altri totalmente inintelligibili; sicuramente lo scrivere sul canale, per farmi anche qualche risata sui miei inspiegabili problemi con altre persone, è stato in questo senso d’aiuto per sfogarmi e distrarmi, non potendo effettivamente riuscire a risolvere le rogne che c’erano sotto quei miei costanti messaggi, ironici ma forse oggettivamente preoccupanti.
Tuttavia, proprio con l’aumentare della posta in gioco, ho iniziato a sentire che scrivere tutte quelle cose così, in pubblico, non andava bene. Non che mi vergognassi di farle vedere alle personcine che vivono nel mio computer, altrimenti non avrei proprio iniziato, ma nello specifico mi preoccupavo di cosa sarebbe potuto succedere se coloro che mi conoscono di persona avessero potuto leggere. In parte avevo già pochissime amicizie reali e volevo evitare di farle saltare malamente, mostrandomi come evidentemente malata oltre che semplicemente stramba, ma in parte avevo forse anche paura che i miei genitori venissero a sapere qualcosa e si preoccupassero, o mi mettessero in punizione, o vai a capire che cosa… Realisticamente, usando un nickname che non avevo mai usato prima, non sarebbe stato facile trovare il canale per qualcuno che mi conosceva di persona e avrebbe provato a cercarlo, ma… a volte la dea Fortuna tende degli scherzi molto brutti, quindi era per me più che logico rendere privato il canale, così da poter continuare a scrivere come stavo facendo, senza preoccuparmi dell’ipotesi in cui qualcuno avrebbe potuto ricollegare i miei contenuti alla mia persona fisica.
Un diario inaspettato
Se ci ripenso un po’ (anche se, dopo tutti questi anni, non ne ho un’idea precisa), forse anche su questo diario ormai semi-privato non ho scritto proprio tutto tutto quello che avrei voluto, e che avrei potuto nella riservatezza più totale, ma ho comunque condiviso tante e tante cose. Così tante che, volendo riconvertire il canale a pubblico un po’ di tempo dopo, ho dovuto cancellare tutti i messaggi più vecchi di un tot, perché sono abbastanza sicura di aver condiviso cose che, seppur di per sé totalmente innocue, se opportunamente triangolate con abbastanza pazienza avrebbero reso possibile ad eventuali attori malevoli l’ottenimento di alcune mie informazioni personali, e non è il caso; il tempo necessario a rivedere anni di messaggi, per cancellare solo i pochi a rischio, sarebbe stato però troppo, quindi per prima cosa feci delle copie private, e poi presi la scomoda decisione di cancellare tutto in gran silenzio (con uno script).
Comunque, ho vaghi ricordi di aver magari scritto delle note private sfuse in quei casi in cui il canale non bastava, ma la cosa non ha mai attecchito in me come attività da ricercare, perché per il resto il canale mi soddisfaceva come registro delle giornate. Prima di poco tempo fa, comunque, ancora non mi accorgevo che questo mio canale non fosse altro che un diario moderno, perché nella mia testa il diario era qualcosa di scritto in un certo modo, e per nulla associabile ad una sequenza di messaggini (seppur cronologici), scritti magari in un italiano rotto, e con in mezzo immagini stupide.
Verso il Fediverso
So che a questo punto sembro ampiamente fuori traccia ma, innanzitutto, sul mio sito comando io; in secondo luogo, però, quello che voglio illustrare è come, fino ad un certo punto, la mia scrittura digitale sia esistita allo scopo di esprimermi in modo estremamente genuino, senza quelle denaturazioni portate dalle meccaniche di Internet, pur essendo in pubblico. Questo, appunto, fino al momento in cui non ho riscoperto l’archetipo dei social più tradizionali, grazie al Fediverso. Ormai dovrebbero saperlo anche i sassi, ma, nel dubbio, è giusto ribadire cos’è il Fediverso a livello pratico (e non tecnico, argomento oggi non ci riguarda): è un ambiente in cui esistono piattaforme social similissime a quelle commerciali più o meno in voga, nelle loro funzioni, ma che non sono controllate da Big Tech, non sono fondate sull’abusare gli utenti per trarre profitto, comunicano perfettamente tra loro anziché essere dei cosiddetti “giardini murati”, e la moderazione è molto efficace. Ce ne sono una marea, ma la piattaforma con cui io iniziai è stata Mastodon, molto approcciabile essendo simile a Twitter ed avendo la comunità italiana più grande (all’epoca l’unica con una buona massa critica, in realtà). Sulla carta sembra tutto estremamente positivo, e ho iniziato ad avvicinarmi sempre di più al mondo dei social network federati, conoscendo tante persone simpatiche e pochissime di preoccupanti (cosa che sui social commerciali non è scontata), iniziando a mettere pian piano sempre più enfasi sull’avere lì il mio microblogging, anziché sul canale Telegram — che a dire il vero stava diventando molto stagnante, con ormai tanta gente che non era più attiva, ma nessuno di nuovo che lo scopriva e veniva.
È più o meno in questo momento che iniziò un certo declino, e la cosa che prima non mi rendevo conto fosse un diario, ora non mi stavo accorgendo di come fosse sempre meno un diario, con ogni nuovo messaggio che inviavo su qualsiasi dei miei profili. Uno dei punti considerato di forza del Fediverso è che (bene o male, al netto di alcune sperimentazioni molto limitate) non ci sono algoritmi che propongono i vari post agli utenti, bensì questi arrivano solo cronologicamente (come faceva tra l’altro anche Twitter nei tempi antichi). Il motivo per cui questo sarebbe positivo è che, non essendoci una macchina che decide in base a criteri segreti (e difficilmente sfruttabili a proprio favore) quali messaggi proporre di più a discapito di altri — qualcosa che Big Social usa appunto per tenere i suoi utenti incollati il più possibile al servizio, tutto nel nome del profitto e spesso in barba a qualsiasi morale — gli utenti avrebbero non solo un vero controllo sulla propria esperienza, ma potrebbero esprimersi autenticamente, senza dover scegliere tra far piacere al supremo algoritmo o l’avere un post che non verrà visto da una singola anima.
Il dilemma dei numeri
Come in ogni cosa, però, più un sistema è complesso, più contiene entropia e variabili imprevedibili (ed una rete sociale è in questo un caso proprio ideale), e più la sua realtà si discosta dai principi ideali; in particolare, essendo il tempo un aguzzino, come può qualcosa non andare storto se se ne da ad esso il totale controllo? Che siano proprietari o comunitari, il problema grosso dei social sono i numeri, e la scalata per aumentarli sempre di più: ripensandoci adesso mi accorgo di come, ogni volta che condividessi qualcosa in quei casi, la priorità non fosse più esprimere quello che sentivo in un dato istante, ma esprimere quello che magari mi andava, ma mi avrebbe allo stesso tempo permesso di accumulare più numeri della volta precedente; e, quando ciò non succedeva, la delusione era palpabile.
Non ho mai veramente abbandonato il canale Telegram, usando qualche volta bot per ripubblicare in automatico da lì al mondo federato e viceversa, e facendolo semplicemente a mano in casi estremi. Non sono mai arrivata al livello di scaricare dati dalla rete federata per calcolare statistiche interessanti ed avere così un vantaggio strategico rispetto agli altri, ma solo per mancanza di tempo, perché la voglia era forte… ma certamente dei calcoli mentali li facevo, riguardo i momenti in cui pubblicare qualcosa, e con che ritmi, nel tentativo di ottenere quelle singole impressioni in più, che si sarebbero poi dovute tramutate in almeno qualche retoot, così da generare qualche altra impressione e così via. Tutto per cosa, poi, raggiungere nuovi seguaci che per via dell’ordinamento temporale si sarebbero di solito comunque persi i miei post? È questa la cosa che, a un certo punto, mi ha fatto proprio perdere la pazienza, e buona parte del mio interesse: il problema non era che ciò che scrivevo non interessava, perché le interazioni arrivavano quando gli astri erano ben allineati, ma che nessuna persona li notava mai per colpa del sistema… che è esattamente ciò che il Fediverso aveva promesso non sarebbe accaduto. La situazione è peggiorata estremamente quando — sembra un paradosso — sono iniziati ad arrivare tantissimi nuovi utenti scappati dal Twitter di Elon Musk, ciclicamente, ogni volta che costui diceva o faceva una delle sue enormi cappellate: avendo utenti in più, ci sono certamente molti occhi in più (2 per ciascun utente!)… ma ahimé, inevitabilmente anche il rumore di fondo si alza di parecchio, e far arrivare un messaggio a qualcuno che possa gradirlo diventa una vera impresa.
Mi fa paura pensare di essere stata intrappolata in questa situazione per più di un anno, avendola ribaltata solo qualche mese fa per puro caso, e di starmi rendendo conto di tutto ciò solo adesso. Nonostante io avessi già decretato come falliti tutti i miei tentativi di espansione del mio regno, questo era comunque un tarlo fisso in testa, e l’interesse che avevo perso nel comporre un diario digitale in maniera disinteressata dagli altri non è magicamente tornato; per un bel periodo, quindi, sul canale Telegram il massimo che inviavo erano memini con commenti personali, e qualche volta il racconto di cose che facevo nel passare il mio tempo con i computer, ma senza più quell’atmosfera intima che un tempo era centrale.
La giusta soluzione sbagliata
Devo praticamente ringraziare il fato di come, totalmente a caso, nel dicembre ormai passato, mi sia venuta in mente quell’ideona di spostarmi sul gestore di contenuti WordPress per gestire tutte le mie pubblicazioni; l’idea era di poter ritrasmettere tutto in automatico su Telegram con un bot, e sul Fediverso tramite il plugin dedicato, così da risolvere il dubbio continuo su dove pubblicare cosa, e poter tornare semplicemente a scrivere come un tempo. Ripensandoci ora, anche questa idea aveva una base dannosa, essendo fondata su questo pensiero malato attorno a cui continuavo a gravitare, ma il risultato è stato totalmente positivo, nonostante non fosse per nulla quello che volevo; è proprio per questo che devo ringraziare la fortuna. È da quando ho iniziato ad andare con questo nuovo ritmo che credo questo argomento meriti un articolo a sé (chiamatemi pure “procrastinatrice maxima”), ma il punto chiave di questi ultimi mesi è che sono tornata quasi allo splendore letterario di un tempo. Purtroppo e menomale, i miei tempi da edgelord2 sono un capitolo chiuso, ma di cose da dire ne ho ancora tante, anzi…
Abituandomi al nuovo sistema, e a come fosse più comodo scrivere lì che su Telegram, ho iniziato a prendere il vizio di scrivere tantissimo in singoli post; qualcosa che non solo ha bruciato qualsiasi mia chance di rilevanza sul Fediverso, ma in realtà ha persino fatto storcere il naso a un paio di vecchi seguaci (non troppi, per fortuna). Inizialmente, un po’ mi sono preoccupata ma, per qualche motivo, questa volta, ha vinto il desiderio dei miei pensieri intrusivi di uscire intatti dalla mia mente per essere distribuiti dignitosamente nell’etere, e non quello di continuare ad adattarmi a meccaniche commerciali. L’ho chiamato semplicemente “microblogoctt” quando ho iniziato, ma, con una media di ormai più di mille caratteri a post, mi rendo conto che definirlo microblog è un po’ fuori luogo per gli standard moderni — sono proprio delle paginette di diario sostanziose — ma è proprio questo il bello. Ormai è passato abbastanza tempo per affermare che non si tratta più della frenesia del software nuovo, ma sto invece proprio apprezzando l’esperienza nel suo complesso. Certo, ho un modo di scrivere per forza di cose completamente diverso rispetto al passato, ma alla base c’è la stessa forza che mi animava una volta.
Il mio diario finale
Avendo capito quindi solo da poco che ciò che avevo un tempo era un diario, e ciò che ancora volevo è praticamente un diario, ho avuto anche il piacere di scoprire una delle caratteristiche chiave di questo formato: quanto sia figo finire per leggere qualcosa di scritto mesi o anni prima, comparando quell’istantanea passata con il contesto presente, percependo le differenze tra le diverse “versioni” della propria persona senza neppure doverci pensare troppo, riflettendo su tutto e proiettando la propria mente ad un vecchio momento positivo; o perlomeno, un momento negativo da cui, grazie alla scrittura, si è idealmente riusciti a trarre qualcosa di positivo. Sono particolarmente speciali gli attimi in cui, per dire qualcosa di nuovo, finisco in qualche modo per collegarmi a post passati: non solo è una scusa concessami dal fato per riguardare cosa scrissi in quel momento, ma mi da l’impressione dello sviluppo continuo di ogni cosa, è la prova che le cose che scelgo di scrivere non si susseguono a caso e non rimangono fini a loro stesse. Mi dispiaccio solo quando, presa da impegni pesantissimi o con la mente a corto di idee, salto un giorno senza scrivere nulla, perché è un’altra occasione per aggiungere a questo mio bagaglio letterario che sfuma; tuttavia, farsene un cruccio vorrebbe dire ancora una volta perdere di vista cosa si sta facendo, perché è normale che nella vita di ogni giorno ci siano momenti non solo belli, non solo brutti, ma anche tremendamente banali e irrilevanti, e quindi non tramutabili in lettere.
Allo stesso tempo, comunque, scrivere in pubblico per me rimane una prerogativa, non solo per via dell’eventuale immediata ricerca di interazioni con altre persone, ma anche più in generale perché mi piace l’idea di costruire una vera e propria base di conoscenza, che chiunque in futuro può leggere, per svagarsi o per arrivare a riflessioni più profonde, esattamente come io faccio con le note degli altri; esattamente come tutti in realtà facciamo leggendo quelle parole, scritte da singoli individui, che la storia ha fatto arrivare fino a noi, dopo la loro morte.
La realtà dei social
Tutto questo, non ci sono storie, va in diretto contrasto con la direzione dei social. La tecnologia che ci sta dietro può in realtà reggere modi di fare un po’ anacronistici (altrimenti il mio sistema con WordPress nemmeno funzionerebbe), ma non è comunque quello il verso in cui gli utenti viaggiano. Se ti adegui al sistema hai la possibilità di vincere un po’ di riconoscimento, ma se non ti adatti hai la certezza di perdere: non è quindi difficile capire come mai la maggior parte delle persone su Internet viva nella gabbia che io ho provato per un po’. Lasciando da parte mode eventuali, che per definizione vanno e vengono, il sistema non contempla che qualcuno si faccia vedere nei suoi momenti più bassi, perché la tristezza e la compassione non generano lo stesso coinvolgimento che la rabbia, il vanto e l’invidia invece assicurano, e quindi: se qualcosa è spiacevole, ci deve essere dietro un colpevole con cui prendersela, perché le lagne sterili scocciano; e, se qualcosa è piacevole, allora deve in qualche modo instillare un desiderio in chi la guarda, oppure deve essere in qualche modo proprio l’espressione di un desiderio, altrimenti non frega. Praticamente, in sé l’atto della pubblicazione sui social deve in genere essere un tentativo di elevarsi a mito.
È chiaro che sto generalizzando, ma, se ci pensate bene, le cose che sui social fanno il botto sono sempre riconducibili ad una di queste categorie, perché — anche stavolta ritorna — la natura umana è bella tosta. Il risultato di questa equazione è che, nel tentativo di ottenere qualcosa per sé, si finisce a scrivere soltanto per dei non ben definiti altri, che possono apprezzare solo se in quel dato momento non hanno davanti qualcosa di ancora meglio. Prevedibilmente, le persone qui in genere non rileggono i propri messaggi più vecchi, non riflettono sul proprio io passato guardando a cosa questi ha prodotto, e so che in realtà molti non si fanno problemi a cancellare i vecchi post dopo un po’ senza conservare alcun backup, privato o meno. Quest’ultima, tra l’altro, è la diretta conseguenza di anche un’altra meccanica che i social impongono, ossia la rincorsa continua verso gli argomenti più freschi, con un ritmo che rende difficile fermarsi a riflettere, con infine il risultato di avere scritti che perdono di ogni senso pratico dopo ore o giorni dalla pubblicazione.
Qualcosa a metà tra la crisi
Volendo chiudere come ho iniziato, bisogna dire per l’appunto che l’ambiente dei canali Telegram (e quelli nello specifico, perché, a parte i microblog autogestiti come potrebbe essere il mio, non c’è altro sullo stesso piano, per le persone comuni) è particolare, in quanto ancora sembra una via di mezzo tra questi estremi. Molto più che in altri luoghi social online, gli utenti che creano un canale come strettamente personale lì, purché non legato ad un tema specifico, finiscono per pubblicare un po’ di tutto, o quasi.
È facile vedere, banalmente girandoci attorno, che il caso è questo, e che alcune delle pubblicazioni hanno un odore simile a quello che avevano le mie nei primi tempi, con diversi amministratori che condividono anche i loro difetti, oltre che le vittorie. Con buona probabilità, l’esposizione è probabilmente filtrata comunque — possiamo semplicemente vedere cosa viene pubblicato, ma non abbiamo la minima idea di cosa invece non viene mai detto — e sicuramente l’introspezione non è per nulla ai livelli del diario di una volta — il formato ridotto a pochissime parole alla volta rende faticoso e dispersivo il guardare indietro per fare confronti, specialmente il cercare “pagine” vecchie — però, evidentemente, il fatto è che l’alternativa classica non attizza proprio più. Anche in questi casi, però, resta comunque spesso la voglia di riservarsi da coloro che hanno su di noi un certo peso; ma, a differenza di Anna Frank, che nella sua situazione limitata non poteva fare altro che usare l’immaginazione, grazie ad Internet noi possiamo trovare degli amici non immaginari con cui confidarci a vicenda, e nel frattempo condividere magari anche delle risate, aprendo loro i nostri diari.
L’importante è l’attenzione
Penso che la mia esperienza, così illustrata, parli quasi da sola, ma per concludere: tenendo conto dell’utente medio, è vero che il passaggio verso prima i blog, e da poco dopo fino ad oggi i social e i microblog, ha cambiato in peggio gli standard della scrittura diaristica. È troppo facile perdere di vista il vero motivo per cui la nostra anima ci fa sentire di dover scrivere, finendo per rincorrere la notorietà, seguendo quelli che prima di noi si sono messi a correre; raccontando, proprio come suggerisce Caminito, un mito di sé, su di un supporto che, per essere davvero utile, dovrebbe invece raccontare la totalità del sé, e farlo al proprio sé.
In definitiva, io credo che non sia impossibile tenere un diario totalmente pubblico sulla rete, inevitabilmente stravolto nella sua forma, ma mantenendo inalterato il senso più profondo, e quindi scrivendo esattamente quello che le generazioni passate avrebbero scritto sulle proprie cronache; indubbiamente, però, è facile inciampare. Devo confessare che ancora adesso, a volte, ho forse pensato un po’ troppo prima di scrivere qualcosa, nonostante la mia nuova consapevolezza e il desiderio di voler davvero utilizzare il mio microblog per esprimermi liberamente, ma… un vantaggio di WordPress è che posso scrivere in pubblico quando mi va, e semplicemente salvare in privato quando non è il caso; quindi, in realtà, ora non succede più che io eviti di scrivere qualcosa solo perché non potrei poi condividerla, ma semplicemente seguo il flusso, faccio quello che davvero sento, scegliendo caso per caso e vivendo quindi correttamente, e consiglierei a voi di fare lo stesso. Che sia principalmente privato o pubblico non importa, tenetelo un diario, ma fatelo bene!
🏷️ Note e Riferimenti
L’immagine decorativa di copertina è ottenuta tramite l’intelligenza artificiale generativa di Microsoft.
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Ho ritrovato il testo integrale dell’autore, pubblicato come articolo, su https://www.liberweb.it/index.php?Itemid=107&catid=29%3Atemi-emergenti-secondario&id=25055%3Aprofili-selfie-e-blog&option=com_content&view=article. ↩
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Non riesco a trovare una definizione perfetta di edgelord nel senso che intendo, ma questa da Urban Dictionary ci si avvicina: an edgelord is someone who likes to share their whole life on social media and make it very dramatic so people will feel bad for them. they like to pretend to be depressed on their snapchat stories - example “DONT HMU 😔💔” stuff like that. they also like to listen to emo rap like lil peep and ghostmane. ↩